August 20th 2024
Interview
ITA
Una cinepresa per gli espropriati
︎︎︎A Fidai Film
Il regista palestinese sta girando diversi festival con il suo ultimo lungo, A Fidai Film, premiato alla Mostra di Pesaro e a Visions du Réel. Noi lo abbiamo incontrato per parlare del suo lavoro, che si confronta con il materiale d’archivio, e dei suoi gesti cinematografici di rivendicazione.
Nel tuo ultimo lungo, A Fidai Film, utilizzi materiale trovato negli archivi dell’esercito israeliano, che a sua volta l’aveva sottratto alle collezioni del Palestine Research Center dell’OLP a Beirut nel 1982, durante l’invasione del Libano. Nel tuo lavoro con l’archivio è centrale questa dinamica di espropriazione e riappropriazione la cui posta mi pare sia quella di un’autorappresentazione del popolo palestinese, sei d’accordo?
È una questione fondamentale per la lotta palestinese: non abbiamo diritto a rappresentarci, a raccontare con la nostra voce, un problema anche al centro di un saggio importante come Orientalismo di Edward Said. E questo problema si radica anche nelle scelte di festival e altre istituzioni culturali, per cui è divenuto quasi automatico, quando si tratta di parlare della causa palestinese, invitare un israeliano solidale con essa; anche a me è capitato spesso di partecipare a eventi in cui la mia presenza richiedeva la controparte di un regista israeliano; ovviamente c’è un auspicio di speranza e di coesistenza, ma non si dà mai il caso opposto. Il mio lavoro con l’archivio, che definisco una “cinepresa degli espropriati”, è un tentativo di resistere a questo divieto di autorappresentarsi. In ogni campo la questione per noi è quella della riappropriazione, della terra così come delle immagini. Fin da subito il sistema sionista ha distrutto e occultato istituzioni e archivi, come per dimostrare l’assurdo cliché della “terra senza un popolo per un popolo senza terra”: nel 1948 intere biblioteche private così come i fondi degli studi fotografici, che documentavano la vita sociale nei decenni precedenti, sono stati saccheggiati e oggi fanno parte degli archivi dello stato israeliano, che come ogni stato efficiente documenta ogni cosa, persino i suoi crimini.
Mi pare che questa riappropriazione richieda sempre un intervento diretto sulle immagini, per rimuovere o aggiungere qualcosa: come ti poni di fronte al materiale con cui lavori?
Un’immagine realizzata da israeliani in Palestina è per me qualcosa di ingiusto, mi disturba e sento di doverla rielaborare, rivoltarla contro se stessa per estrarne nuovi significati. Anche il cinema israeliano ha giocato un ruolo nel rivendicare il possesso dei luoghi e della loro storia: è come se i palestinesi fossero stati sradicati due volte, nella realtà e nella finzione. È il presupposto del mio lavoro sui film di finzione israeliani in Recollection: la presenza degli attori mi impediva di vedere la città usata come set e quindi ho deciso di rimuoverli, ritagliando o zoomando nelle inquadrature. Quando ho trovato le immagini per A Fidai Film, ricoperte dalle note di catalogazione dell’esercito, la prima idea è stata quella di graffiare quelle scritte, sabotarle. Per farlo ho usato il colore rosso, per rimarcare la violenza già incorporata nelle immagini. Alla loro violenza si sovrappone la mia, perché, come diceva Frantz Fanon, la violenza coloniale genera una contro-violenza. Devo intervenire sempre nelle immagini, non posso limitarmi a commentarle in modo saggistico. Cerco di trovare un equilibrio tra esporre i fatti ed esprimere ciò che sento, ma il mio è un approccio emotivo e poetico. Non pretendo di essere oggettivo: la mia è un’opera soggettiva, un atto di emancipazione. Recentemente a un festival mi hanno chiesto come affronto la questione dei diritti d’autore e mi è venuto naturale rispondere: «Non credo al diritto d’autore, credo nel diritto di liberazione».
Stai girando molto per i festival con questo film: quali sono le reazioni dal pubblico? Sono diverse dal passato?
Sono stupito, di solito mi veniva sempre chiesto di spiegare, chiarire il contesto, che non è il mio ruolo: lavoro con i sentimenti, con la poesia. Ora il pubblico non pone più queste domande. Penso che quello che è successo negli ultimi mesi di guerra e genocidio a Gaza abbia spinto le persone a educarsi: sentono anziché cercare spiegazioni, hanno sviluppato un senso di giustizia, di empatia. Per esempio, nel film includo scene che risalgono agli anni del mandato britannico, anche perché per me non si tratta solo degli israeliani, ma del colonialismo subito dalla Palestina ben prima del 1948. E anche se le persone non sanno identificare la nazionalità di quei soldati, riconoscono il metodo, lo stesso che vedono oggi su scala più vasta: gli arresti indiscriminati di civili, le case distrutte, le punizioni collettive, una pratica che gli israeliani hanno appunto ereditato dai britannici. Lavorare con immagini d’archivio consente di osservare come certi schemi si ripetano nel tempo. E in un certo senso l’inizio e la fine coincidono.
So che girerai il tuo prossimo film in uno studio: da cosa deriva questa scelta?
Sarà un film di finzione: il progetto risale a più di dieci anni fa e inizialmente intendevo girarlo in Palestina, il che ora è impossibile a causa delle circostanze attuali. Ma in fondo è sempre stato così, è la stessa limitazione che mi ha portato a lavorare col found footage: l’accesso al mio paese, l’accesso alle immagini. Quindi sto rielaborando il progetto e penso che in qualche modo queste limitazioni diventeranno il film stesso.