August 18th 2015
Interview
ITA
LOCARNO 68. Incontro con il regista palestinese autore di «Recollection» proposto nella sezione Signs of Life. Ha realizzato il suo film utilizzando una serie di materiali filmici pre-esistenti girata da troupe israeliane e americane dai '60 ai '90.
︎︎︎Cecilia Ermini, LOCARNO
«Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro…» Giuseppe Ungaretti cominciava così la dolente lirica per San Martino del Carso ed è proprio quel paesaggio vivo e umanizzato, a dispetto della distruzione, a costruire un ponte spazio-temporale con la città di Jaffa nel film Recollection di Kamal Aljafari, presentato a Locarno nella sezione Signs of Life. Alfajari, regista palestinese da anni residente a Berlino, ha realizzato il suo film utilizzando esclusivamente una serie di materiali filmici pre-esistenti (circa 50 film di finzione girati a Jaffa da troupe israeliane e americane dagli anni ’60 ai ’90) come materia fisica di un sogno, plasmando le immagini di una città martoriata per ricostruirla e donarle nuova memoria. Un film-sogno, ispirato da un vero e proprio ricordo onirico dove il regista stesso vagava per la città e incontrava troupe, dove qualcuno, di ritorno a Jaffa, comincia a fare delle riprese.Lentamente, fra le rovine sepolte dalle onde del mare e le tende senza vento delle poche case rimaste, questo filmmaker-sognatore comincia a scorgere segni di vita, panni stesi, tracce di pneumatici, cercando l’umanità nei solchi di una pietra e cominciando a modellare quello che vede, selezionando angoli precisi all’interno dell’inquadratura fino all’incontro con i pochi abitanti rimasti. La memoria sembra dunque filmare se stessa, ritornando sui luoghi della Storia e del Cinema, girovagando nel passato con il desiderio di una nuova vita sullo schermo, con la profonda convinzione che il Cinema sia in qualche modo abbastanza «vecchio» da poter essere di nuovo libero di sperimentare e di farsi carico di ri-edificare, grazie a un deposito filmico oramai pluricentenario, ciò che non esiste più, come ci racconta il regista stesso…
CE Come è nata l’idea di ricostruire il passato di Jaffa utilizzando quell’archivio filmico per poi legarlo ai tuoi ricordi d’infanzia? KA Ho iniziato a pensare a questo progetto circa 6 anni fa e la prima idea era di creare delle immagini-cartolina tratte da questi film. Ho fatto circa 250 fotografie di inquadrature nel tentativo di creare una sorta di album privato della città. Poi, improvvisamente, ho sentito il desiderio di ricavarne un lungometraggio quando mi sono accorto, guardando per caso un vecchio film israeliano in tv, che i film girati a Jaffa erano sostanzialmente una sorta di repertorio documentaristico su come era la città e su comeè stata distrutta nel corso dei decenni. Io stesso, quando ero piccolo, mi ritrovai per caso, nei primi anni ’80, sul set di uno di queste produzioni ovvero Delta Force con Chuck Norris.
CE Un film intriso di propaganda reaganiana, se ricordo bene…
KA Assolutamente sì e pensa che in quel film hanno usato delle vere cariche esplosive, nella scena finale per esempio, per distruggere un palazzo. E alla fine delle riprese quella costruazione, e quel pezzo di storia, non esisteva più.
CE Quando ha avuto inizio questa sorta di secondo assedio «cinematografico» della città?
KA Fin dai primi anni ’60 Jaffa era usata, a mio avviso, non solo per il fatto di essere una specie di set storico «naturale» ma anche perché il cinema aveva bisogno di Jaffa per affermare la presenza israeliana nel passato di quelle terre. Era impossibile per loro pensare «Siamo nuovi qui» e, allo stesso tempo, non sarebbe stato possibile girare alcuni film a Tel Aviv perché era una città nuova, troppo moderna.
CE Che cosa hai provato nell’osservare la progressiva perdita di identità di Jaffa?
KA È stato molto doloroso perché anno dopo anno questi film testimoniavano la sparizione della città, uno dopo l’altro, ma quando li ho visti mi hanno restituito anche la gioia di porzioni di ricordi passati, non solo miei, ma memorie genetiche della gente delle mie terre. Recollection credo cerchi di esprimere i sentimenti di qualcuno che si trova di fronte a una catastrofe e sono felice di questo film perché nonostante tutto, è pieno di speranza.
CE In Recollection, sentiamo unicamente i passi di quest’uomo fra le rovine della città. Proviene da materiali pre-esistenti o l’hai registrato ex novo? Le uniche parole che sentiamo inoltre sono un breve dialogo con una bambina smarrita, quasi a rimarcare una mancanza di precisione geografica…
KA Ho registrato a Jaffa, di notte, perché volevo un suono calmo e distante. Credo che quei passi siano quello che leghi tra di loro il passato, il presente e anche il futuro. Il dialogo con la bimba è arrivato per caso, stavo registrando ed è arrivata lei, perduta quasi quanto il mio protagonista e le sue parole non fanno che confermargli di trovarsi in un posto che non riesce bene a focalizzare. Potrebbe essere Aleppo, Berlino nel 1945 oppure la Detroit di oggi, una qualsiasi città devastata e forse, come ne Le città invisibili di Italo Calvino, il mio protagonista è un Marco Polo che non vuole parlare di Venezia perché ha paura di perderla, di vederla scomparire solo pronunciando il suo nome ma per fortuna nel mio caso, come mi ha detto un amico durante le riprese, un film «dura» più di un essere umano.
︎︎︎Cecilia Ermini, LOCARNO
«Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro…» Giuseppe Ungaretti cominciava così la dolente lirica per San Martino del Carso ed è proprio quel paesaggio vivo e umanizzato, a dispetto della distruzione, a costruire un ponte spazio-temporale con la città di Jaffa nel film Recollection di Kamal Aljafari, presentato a Locarno nella sezione Signs of Life. Alfajari, regista palestinese da anni residente a Berlino, ha realizzato il suo film utilizzando esclusivamente una serie di materiali filmici pre-esistenti (circa 50 film di finzione girati a Jaffa da troupe israeliane e americane dagli anni ’60 ai ’90) come materia fisica di un sogno, plasmando le immagini di una città martoriata per ricostruirla e donarle nuova memoria. Un film-sogno, ispirato da un vero e proprio ricordo onirico dove il regista stesso vagava per la città e incontrava troupe, dove qualcuno, di ritorno a Jaffa, comincia a fare delle riprese.Lentamente, fra le rovine sepolte dalle onde del mare e le tende senza vento delle poche case rimaste, questo filmmaker-sognatore comincia a scorgere segni di vita, panni stesi, tracce di pneumatici, cercando l’umanità nei solchi di una pietra e cominciando a modellare quello che vede, selezionando angoli precisi all’interno dell’inquadratura fino all’incontro con i pochi abitanti rimasti. La memoria sembra dunque filmare se stessa, ritornando sui luoghi della Storia e del Cinema, girovagando nel passato con il desiderio di una nuova vita sullo schermo, con la profonda convinzione che il Cinema sia in qualche modo abbastanza «vecchio» da poter essere di nuovo libero di sperimentare e di farsi carico di ri-edificare, grazie a un deposito filmico oramai pluricentenario, ciò che non esiste più, come ci racconta il regista stesso…
CE Come è nata l’idea di ricostruire il passato di Jaffa utilizzando quell’archivio filmico per poi legarlo ai tuoi ricordi d’infanzia? KA Ho iniziato a pensare a questo progetto circa 6 anni fa e la prima idea era di creare delle immagini-cartolina tratte da questi film. Ho fatto circa 250 fotografie di inquadrature nel tentativo di creare una sorta di album privato della città. Poi, improvvisamente, ho sentito il desiderio di ricavarne un lungometraggio quando mi sono accorto, guardando per caso un vecchio film israeliano in tv, che i film girati a Jaffa erano sostanzialmente una sorta di repertorio documentaristico su come era la città e su comeè stata distrutta nel corso dei decenni. Io stesso, quando ero piccolo, mi ritrovai per caso, nei primi anni ’80, sul set di uno di queste produzioni ovvero Delta Force con Chuck Norris.
CE Un film intriso di propaganda reaganiana, se ricordo bene…
KA Assolutamente sì e pensa che in quel film hanno usato delle vere cariche esplosive, nella scena finale per esempio, per distruggere un palazzo. E alla fine delle riprese quella costruazione, e quel pezzo di storia, non esisteva più.
CE Quando ha avuto inizio questa sorta di secondo assedio «cinematografico» della città?
KA Fin dai primi anni ’60 Jaffa era usata, a mio avviso, non solo per il fatto di essere una specie di set storico «naturale» ma anche perché il cinema aveva bisogno di Jaffa per affermare la presenza israeliana nel passato di quelle terre. Era impossibile per loro pensare «Siamo nuovi qui» e, allo stesso tempo, non sarebbe stato possibile girare alcuni film a Tel Aviv perché era una città nuova, troppo moderna.
CE Che cosa hai provato nell’osservare la progressiva perdita di identità di Jaffa?
KA È stato molto doloroso perché anno dopo anno questi film testimoniavano la sparizione della città, uno dopo l’altro, ma quando li ho visti mi hanno restituito anche la gioia di porzioni di ricordi passati, non solo miei, ma memorie genetiche della gente delle mie terre. Recollection credo cerchi di esprimere i sentimenti di qualcuno che si trova di fronte a una catastrofe e sono felice di questo film perché nonostante tutto, è pieno di speranza.
CE In Recollection, sentiamo unicamente i passi di quest’uomo fra le rovine della città. Proviene da materiali pre-esistenti o l’hai registrato ex novo? Le uniche parole che sentiamo inoltre sono un breve dialogo con una bambina smarrita, quasi a rimarcare una mancanza di precisione geografica…
KA Ho registrato a Jaffa, di notte, perché volevo un suono calmo e distante. Credo che quei passi siano quello che leghi tra di loro il passato, il presente e anche il futuro. Il dialogo con la bimba è arrivato per caso, stavo registrando ed è arrivata lei, perduta quasi quanto il mio protagonista e le sue parole non fanno che confermargli di trovarsi in un posto che non riesce bene a focalizzare. Potrebbe essere Aleppo, Berlino nel 1945 oppure la Detroit di oggi, una qualsiasi città devastata e forse, come ne Le città invisibili di Italo Calvino, il mio protagonista è un Marco Polo che non vuole parlare di Venezia perché ha paura di perderla, di vederla scomparire solo pronunciando il suo nome ma per fortuna nel mio caso, come mi ha detto un amico durante le riprese, un film «dura» più di un essere umano.