June 18th 2024
Film Review
ITA
I materiali d’archivio si trasformano in resistenza militante in quest’opera sulla storia della Palestina
︎︎︎A Fidai Film
A seguito dell'invasione del Libano nel 1982, l'esercito israeliano sequestra dei documenti dagli uffici del Palestine Research Center a Beirut, rendendo inaccessibili delle importanti testimonianze - testi e immagini - sulla vita nei territori palestinesi dei cinquant'anni precedenti. Attraverso il recupero di materiali d'archivio, Kamal Aljafari organizza cronologicamente frammenti storici presentando una visione della Palestina e dei suoi abitanti che altrimenti resterebbe nascosta.
Non è facile per un film "di montaggio" essere attivamente militante e sovversivo, ma il regista palestinese Kamal Aljafari riesce nell'impresa assemblando un puzzle visivamente eterogeneo, che tocca registri del documentario ma anche di cinema sperimentale. Il tutto dando un importante segnale dell'esistenza storica e radicata della sua patria.
Un segnale che non è significativo solo per ciò che rivela - angherie, soprusi, così come momenti rubati e clandestini, più sereni, in cui Aljafari cerca individui in secondo piano per dar loro il risalto che il filmato negava - ma anche per l'orgoglio insito nell'atto del disvelamento. La sua firma più stridente è un tratto rosso vivo che va ad annotare le immagini, a rimuovere titoli e didascalie, o a coprire volti di attori in produzioni israeliane di finzione. Resistenza che si fa grido di dolore, fino a riempire di questo inserto sanguinoso le fibre stesse della pellicola.
Se la resistenza all'occupazione israeliana passa anche dalla frontiera delle immagini, Aljafari di certo fa la sua parte, avendo già firmato opere dallo spirito simile come Recollection e Paradiso XXXI, 108: la parola d'ordine è riappropriarsi di ciò che è già filmato, cambiare il senso di un'immagine ri-contestualizzandola.
Non è facile per un film "di montaggio" essere attivamente militante e sovversivo, ma il regista palestinese Kamal Aljafari riesce nell'impresa assemblando un puzzle visivamente eterogeneo, che tocca registri del documentario ma anche di cinema sperimentale. Il tutto dando un importante segnale dell'esistenza storica e radicata della sua patria.
Un segnale che non è significativo solo per ciò che rivela - angherie, soprusi, così come momenti rubati e clandestini, più sereni, in cui Aljafari cerca individui in secondo piano per dar loro il risalto che il filmato negava - ma anche per l'orgoglio insito nell'atto del disvelamento. La sua firma più stridente è un tratto rosso vivo che va ad annotare le immagini, a rimuovere titoli e didascalie, o a coprire volti di attori in produzioni israeliane di finzione. Resistenza che si fa grido di dolore, fino a riempire di questo inserto sanguinoso le fibre stesse della pellicola.
Se la resistenza all'occupazione israeliana passa anche dalla frontiera delle immagini, Aljafari di certo fa la sua parte, avendo già firmato opere dallo spirito simile come Recollection e Paradiso XXXI, 108: la parola d'ordine è riappropriarsi di ciò che è già filmato, cambiare il senso di un'immagine ri-contestualizzandola.