June 18th 2024
Film Review
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‘A Fidai Film’ di Kamal Aljafari, a Pesaro le memorie di Palestina che resistono


        ︎︎︎A Fidai Film
by Antonio Maiorino
on Taxi Drivers
︎︎︎Source

Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema un documentario sperimentale e impossibile resuscita un archivio palestinese distrutto


Se non è una battaglia di archivi, almeno è sabotaggio. O resistenza. A Fidai Film del regista palestinese Kamal Aljafari, in concorso alla 60a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, ricompone i pezzi di un archivio smembrato dall’attacco delle forze israeliane nel 1982, allorché all’occupazione di Beirut sarebbe seguito l’assalto al Palestinian Research Center. Volumi caricati su furgoncini, immagini e fotografie disperse: i ricordi come prigionieri di guerra. Aljafari punta allora a reincarnare nel fantasma del cinema una contro-storia, un archivio impossibile, la cui reimmaginazione si fa resurrezione. Raccogliendo lacerti, anche di arduo recupero, l’autore sviluppa tra flussi e suture un blob anonimo, sperimentale e collettivo di una “telecamera dei diseredati” (“the camera of the dispossessed”). È il racconto di chi, senza voce, rischia anche di perdere la memoria.

La trama di A Fidai Film
Nell’estate del 1982 Beirut è stata invasa dall’esercito israeliano, che in quell’occasione ha raso al suolo il Palestinian Research Centre saccheggiando l’intero archivio, fra cui una storica raccolta di fotografie e immagini in movimento. A Fidai Film (fidai è il singolare di fedayn) vuole dar luogo a un contro-racconto di questa perdita, realizzando una forma di sabotaggio cinematografico nel tentativo di recuperare e ricomporre le tracce rubate della storia palestinese. (Fonte: sinossi dal sito della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro).

Il trailer di A Fidai Film



Quella sporca dozzina
Da Michel Khleifi a Nizar Hassan, passando per Mai Masri, Rashid Masharawi, Annemarie Jacir fino ad Hany Abu-Assad e Najwa Najjar, il cinema palestinese non ha mancato di esprimere visioni radicate, radicali, peculiari. A ciascuno il suo cinema – e Aljafari, fidai a sé stesso, non si smentisce. Classe ’72 , cresciuto a Ramla sotto occupazione, l’autore ha coltivato tra Berlino e gli Stati Uniti una visione unica e sovversiva. Non è solo cruda guerriglia cinematografica; l’estetica è raffinata, è il primo afflato di ribellione. Così riassumibile, dal punto di vista del cineasta: ripristinare l’immagine offesa della Palestina. La memoria si restaura come una vecchia pellicola, sopravvivendo allo sfregio, anzi, esibendo il graffio. Morto un archivio, se ne fa un altro: ciò che è perduto può rinascere come per alchimia del cinema eleggendo altri frammenti a cantastorie. Così, la debolezza diventa forza: la distruzione delle immagini che il regista imputa alla propaganda israeliana diventa il suo esatto contrario, ossia, ostinazione del racconto. Ancor più forte se, appunto, in prima linea c’è un’intera generazione di narratori tenaci.

Il museo dei giorni
A Fidai Film
(2023) appare, col suo magma canalizzato delle immagini sopravviventi, sulla stessa indefettibile traiettoria filmica iniziata con Visit Iraq (2003) e proseguita con altre opere, spesso eloquenti già dal titolo, quali Port of Memory (2009), Recollection (2015) o il più recente Paradiso, XXXI, 108 (2022). Non servono i titoli di testa, decapitati dall’autocensura del rosso sangue, per firmare A Fidai Film. Anche se i crediti sono cancellati, è il modo in cui Aljafari filma che si fa firma. Le scene degli archivi sono scagliate in un pendolo impazzito: un poema cantato intona l’espressione evocativa di “museo dei giorni”.

In the museum of days is this journey I walk and walk, when they speak of woes.

(Nel museo dei giorni è questo viaggio Cammino e cammino, quando parlano di dolori)

Ci si muove tra bianco e nero e improvvisi viraggi in rosso, tra il 1948 e gli anni ’80, tra messa in scena di storie individuali – fatte recitare sulla base di lettere e documenti autentici – e filmati di varia sorta. L’assenza si è fatta pluralità, rigoglio anche confuso. Ci sono summit di ufficiali e politici, impietose scorribande militari, edifici sfaldati in macerie o risonanti di urla, ma anche il controcanto dei bambini, idilli in riva al mare come estratti da una Nouvelle Vague palestinese, nativi che ballano spensierati. E ancora: negativi che oscurano quanto gli Israeliani volevano raccontare, illuminando, invece, ciò che si voleva oscurare. L’effetto è quello di storie interrotte, a cui il “ciak” ha dato di nuovo l’azione. Se è un documentario, il documentato è nella vita fragile ma resiliente di un popolo intero. Anche quando disintegrato.

Grana rosso sangue
Si può restare disorientati, ma non insensibili, di fronte a questo bricolage del ricordo. Anche a non voler trovare un filo, le fiamme bruciano, i carrarmati rullano e non ci si capacita delle urla congelate sulla lastra ferita della pellicola. La disperazione di certe scene sembra cozzare con l’asettico minutaggio del filmato, che spesso scorre in sovrimpressione a impressionanti cronache di guerra, tra le cifre truci e indifferenti. È facile associare il dripping rosso, che Aljafari appone al bianco e nero dell’immagine sgranata, al sangue delle vittime. Per ridare vita al ricordo, bisogno accettare anche la morte.


Ma non c’è nulla di sensazionalistico. Il realismo pacifico di certe innocue cartoline, scorci urbani con panni stesi alla peggio e signore alla finestra, deflagra più di ogni mortaio, sapendo quella quotidianità così insidiata dalla perdita. Resta come un pianto silenzioso, evocato dalle parole dei documenti, destinato ad annegare nel flusso delle immagini, nelle riprese insistite delle onde del Mar Rosso.

Vederci speranza, anche quando un bambino cammina tra gli scogli, può essere troppo. Ma la resistenza, quella c’è.

Kamal Aljafari
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