March 27th 2021
Film Review
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Si esiste solo se si è visti: An Unusual Summer, Kamal Aljafari

        ︎︎︎An Unusual Summer


        by Giuseppe Gariazzo
        on Film Parlato Magazine
        ︎︎︎Source
        


On my father’s camera everyone has a chance to exist”.

        Si esiste solo se si è visti - ce lo ricorda(va)no anche José Saramago in Cecità e Charles Aznavour nei suoi diari filmati portati alla visione da Marc di Domenico in Le regard de Charles. Fare emergere dal passato immagini dimenticate, e dare loro visibilità, è il lavoro monumentale che Kamal Aljafari compie da anni e trova in An Unusual Summer un altissimo punto di ricerca. Vedere/Essere visti. Ovvero, come un materiale nato, e accumulato in ore, giorni, di girato, con l’intento di cercare di scoprire il responsabile di un atto di vandalismo contro l’auto del padre del regista, si trasformi, ancora una volta nell’opera di Aljafari, in una potente riflessione sullo sguardo, sul territorio, sui corpi che vi transitano, attraverso la manipolazione del testo originario, sul quale intervenire per rendere quelle immagini la tela che cristallizza uno stato di cose tanto intimo, familiare, quanto sociale, politico.

        Il pre-testo di An Unusual Summer è apparentemente semplice: nel 2015 il padre di Aljafari muore e il figlio cineasta trova i nastri registrati nell’estate del 2006 dalla videocamera di sorveglianza installata dal padre da una finestra della sua casa. Fino a quel momento nessuno, tranne il genitore, aveva guardato quella mole di immagini. Un unico punto di vista, lo stesso set, che Aljafari conta-mina con i suoi interventi, camminando - con l’occhio tagliato perché solo accecandosi si può tornare a vedere - dentro quelle immagini, penetrandole (proprio come in Recollection), colmando la distanza fra la casa di famiglia (da dove tutto si osserva) e lo spiazzo antistante: la strada, un piccolo parcheggio con l’auto del padre e quella della moglie, un muretto, un albero con giardino in secondo piano, il pezzo di un’altra strada sulla sinistra dell’inquadratura. Ed ecco che, nell’espressione artistica di Aljafari, quel punto di vista da unico diventa plurale, quel set da fisso si fa mosso, esplorato nei dettagli da un occhio che, proprio perché alterandole, rende sue quelle tracce depositate e a lungo invisibili, ridando loro senso e esistenza, interrogando la loro origine e terremotandola in un discorso teorico e militante. Non si tratta più solo di (una parte di) immagini il cui scopo era di pura documentazione investigativa di un, in fondo, banale fatto quotidiano. Aljafari ne estrapola dei frammenti (in particolare relativi a una giornata la cui data è impressa sull’immagine), avanza e retrocede, ri-avvolge e ri-svolge il nastro, destruttura l’ordine cronologico per ri-comporne uno tutto suo, espanso e contratto che, istante dopo istante, fotogramma dopo fotogramma, di-segna la mappa sempre variabile di un territorio circoscritto che assume, nel gesto filmico del cineasta palestinese, forme stratificate di significato.
        Quello sguardo dalla finestra, che coglie gesti e voci dei passanti (il padre, la madre, la sorella del regista, qualche abitante del quartiere di Ramle chiamato “Il Ghetto”, città in territorio israeliano dove la parte paterna della famiglia si fermò dopo l’esilio del 1948, ricordava Aljafari in un altro suo lavoro), la reiterazione dei loro comportamenti, ha la forza di una visione d’inizio cinema, una veduta che richiama quelle dei fratelli Lumière sconvolta però dalle interferenze visive, dai graffi, dai dettagli, dalle alterazioni cromatiche create da Aljafari che fanno venire alla mente anche le esplorazioni totali nei meandri delle immagini compiute dai sempre imprescindibili Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucci e Stan Brakhage. E, in sintonia Lumière, Aljafari usa didascalie, anche graficamente simili a quelle del muto, per dare informazioni, in terza o prima persona, mentre solo la voce di un bambino o cenni di brani musicali interagiscono ogni tanto con i suoni e il silenzio provenienti dalla strada. Uno spicchio di terra che racchiude tutta la Palestina. Perché con questo autentico capolavoro Aljafari fa (anche) uno dei ritratti più nitidi (da immagini deturpate spesso fino all’indefinizione) della condizione palestinese. La veduta dalla finestra nell’interpretazione di Aljafari assume le forme di una gabbia, di un perimetro dentro il quale le persone deambulano, come se lì venissero sempre respinte dal fuori campo verso cui si dirigono. Un’immagine che imprigiona, che trasmette la più profonda claustrofobia di un popolo cui è negato il movimento, così a Gaza come in Cisgiordania, da un sempre più devastante regime israeliano. An Unusual Summer è un’immensa opera teorica e di bruciante attualità. Si esiste solo se si è visti.

Kamal Aljafari
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